Don Carlo Bicchetti 


                    La messa più ricercata era quella di don Carlino, canonico della cattedrale e ufficiale postale, che appestava, col suo sigaro eternamente rigirato agli angoli della bocca senza l’aiuto delle mani, il piccolo locale in cui faceva spicco l’apparecchio telegrafico di ottone. Si distingueva ancora quell’ufficio, che aveva anche il pavimento di legno, per l’odore e lo spessore di polvere che ricopriva registri e modulari, accatastati su panche e tavoli nel più bel disordine del mondo. Andavo spesso alla posta da piccolo: mi vi mandava mamma, specie quando, per i versamenti monete da uno, due, quattro soldi. Io ragazzo assorbivo meglio o non davo affatto peso alle sfuriate del capo all’ufficio, don Carlino appunto. Per srotolare e contare e riporre ci voleva un po’ di tempo: ecco tutto. Molto più paziente e disponibile si dimostrava il dipendente più anziano, portalettere urbano, Ciriaco De Mita Senior, che la domenica troneggiava tra i banchi della chiesa di S.Giuseppe assieme al direttivo dell’omonima congrega.
                    Quella di don Carlo Bicchetti era dunque la messa più seguita, e non soltanto per l’orario in cui veniva celebrata, prima dell’apertura degli uffici, dell’andata a scuola dei ragazzi, dell’uscita delle donne per la spesa. La vera ragione era che don Carlino sull’altare sembrava alla guida di un elettrotreno, che dico?, somigliava al vento “faugno” quando possente sud-est investiva i colli dall’altopiano irpino. Dall’introibo ad altare Dei - inizio - all’ite missa est - fine - correvano appena 15 minuti: una manna specie per chi aveva fretta, come i contadini della domenica che venivano su al paese per le spese settimanali e altre necessità. Un quarto d’ora risultava sufficiente per compiere tutte le operazioni del rito, per effettuare le letture, recitare le varie preghiere, eseguire, detto irriguardosamente, “le mosse”.
                    Chi arrivava appena un po’ tardi alla messa di don Carlino doveva irrimediabilmente rassegnarsi alla successiva e risparmiarsi la solita domanda che si rivolgeva a presenti in questa circostanza “E’ voltata?”.
Che vuol significare “non è valida?”.
                    E non mi si venga a dire che il nostro sacerdote facesse le cose a metà. Nient’affatto. Accusate pure la foga, la partecipazione, la furia, nella parola e nella gestuazione, ma non mettete in dubbio la completezza. Solo le genuflessioni - l’età c’era - erano appena accennate. Carminiello, sacrestano e servitore delle messe in cattedrale, che per via del nervosismo e dell’abitudine mandava fuori piccoli e grossi moccoli in lingua nuscana e americana, riusciva a tenere il passo con il ritmo frenetico (stavo per dire infernale) del celebrante. Certo non si poteva pretendere di afferrare una sola delle parole, in latino poi, che uscivano dalle loro bocche, paragonabili alle onde di un fiume vorticoso.
                    Se chiudo gli occhi e invito la memoria a presentarsi qualche immagine della messa di don Carlino, constato dolorosamente i guasti che il tempo di oltre dodici lustri ha operato sui neuroni della mia testa: riesco a vedere soltanto le liste nere dei pantaloni che bordavano il bianco del camice, la flessione delle ginocchia appena accennata.
Nessuno dei numerosi preti (a Nusco una strada era denominata “via della passeggiata dei preti”) del tempo tentò mai di abbassare o soltanto eguagliare il record di don Carlino, al quale bene si affiancherebbe l’attributo di cattolico, cioè universale.
                    Il sigaro, eternamente al suo posto, la direzione dell’ufficio postale, la celerità della messa erano le caratteristiche del canonico Bicchetti, il quale, secondo quanto mi riferisce mia moglie in questo momento, incontrando lei ragazzetta, paffuta e rubiconda, nel largo San Donato, le rivolgeva la seguente domanda: “E llu veru guagliuttè, ca mammata allucca sembu pucchè nunt’abbasta nu chilu ri panu a lu iurnu?”. Il fratello, don Nunzio, canonico anche lui, si distingueva per l’imponenza della figura e per la passione della caccia, causa quest’ultima di frizione con Sua Eccellenza per via degli abiti, giacca e pantaloni neri (senza volerlo precorreva i tempi), che portava alla posta della lepre e della quaglia.
                    Il contrario di don Carlino, per quanto riguarda i tempi della celebrazione eucaristica, era rappresentato da don Raffaele, il nipote del vescovo Mores, che assicurò organizzazione e fama all’Azione Cattolica del paese. La sua valeva temporalmente quattro messe del canonico Bicchetti: tutto il cerimoniale, parole, e gesti, acquistavano nella lentezza solennità e sacralità. Questo ricordo bene: il momento centrale della messa, la consacrazione, sembrava vissuto in maniera sofferta, forse come quella che apriva le piaghe nelle mani del monaco di Pietrelcina. I colpi al petto, al momento del Domine non sum dignus, erano scanditi assieme alle parole in maniera tale che avrebbero potuto farmi pensare, se allora l’avessi saputo, al tormento del sacerdote slavo che subì il miracolo di Bolsena.
                    Quando fui giovane e, “gettata la tonaca alle ortiche”, mi si intiepidì la devozione, ricercai anch’io, in varie occasioni, la messa di don Carlino, durante la quale non si osava far luogo a chiacchiere e scherzi tra compagni.
                    Nell’ufficio postale, allo sportello di destra, riservato al direttore, don Carlino appariva ben diverso dallo sprinter della messa: non era più un torrente impetuoso, l’Avella ad esempio, che scende dalle vette di monti Picentini; era il fiume reale che si distende e si allarga nella piana dell’estuario al mare il tributo di un esteso bacino.

                                     Prof. Michele Della Vecchia