Il sapore della nostalgia

                                        Con l'arrivo del mese di giugno mi ritorna alla mente, sempre più spesso, il paese natìo, anzi la sua campagna. E mi prende una leggera nostanlgia. Rivedo, come in un sogno, le stradine sconnesse ed erbose, dove l'odore delle ginestre fiorite e dei ciuffi di menta si diffondeva a ventate e dava al cuore; e le distese d'erba di lupinella, con i fiori già rossi. Per non parlare poi dei manti di fragole, nascoste tra una selva di felci, lassù sui monti.

                                        Giugno, bel mese davvero per le campagne di Nusco.

                                        Il sapore e il profumo di quelle fragole non li ho più ritrovati. Sapevo di un posto, quasi inaccessibile, a metà del "Montagnone". Quando mettevo la testa sotto le felci, erano grida di gioia. Poi, una in bocca e una nel cesto, con lena e avidità. Erano giorni felici. Mio padre mi portava in campagna fin da bambino. Per questo, credo, ho sempre amato i luoghi solitari, il silenzio dei boschi. Egli conosceva certe scorciatoie, dove si procedeva per ore senza incontrare anima viva. Durante quelle interminabili camminate avevo tempo per contemplare la natura, raccogliere fiori, riflettere, sognare ad occhi aperti; penso che sul mio carattere, un po' solitario, scontroso, abbia influito il lungo periodo di tempo trascorso nelle campagne nuscane. La vita rurale era fatta di solitudine, di poche parole.

                                        Rosetta, Michele, mia sorella Maria ed io, non ancora adolescenti, facevamo viaggi e viaggi con sulle spalle il carico d'erba fresca, per riempire le mangiatoie. Stefano, un contandinello svelto e robusto, la tagliava di mattino presto, nel terreno di proprietà dei monaci, che dimoravano poco più su, nella grande casa patrizia dei signori Saponara. Un quartetto ben affiatato, il nostro. Non appena giunti nel campo, cominciavamo le rincorse, i tuffi nell'erba, i giochi a nascondino. Una fugace capatina al ciliegio, guardato a vista da Stefano, il quale diventava presto nostro complice, permettendoci di riempire le tasche di quel frutto tanto atteso e tanto prelibato...

                                        Una volta raggiunto il vicoletto, i complimenti degli adulti non mancavano di certo: "Ma che bravi figliuoli, così si aiutano i genitori!" Non riuscivamo a nascondere un certo orgoglio per quei giudizi positivi. E via di nuovo giù per la discesa di "Santa Croce". Verso sera il meritato premio: tutti e quattro uniti intorno al tavolo, una scodella di minestra calda preparata da mia madre o, a seconda del turno, da Antonietta, la madre di Michele.

                                        Ma non bastava. Consumata la cena, erano ancora giochi nell'oscurità dei vicoletti. La gioia di stare insieme era davvero tanta.

                                        Finché il vecchio Giuseppe, che di buon mattino doveva recarsi nei campi, non ci ordinava di farla finita, con la sua voce tonante. Era costui un uomo grande e grosso. Un bonaccione. Molto spesso lo costringevamo a raccontare la sua avventurosa ritirata che era stato costretto a compiere, durante la seconda guerra mondiale. A suo dire, era tornato a piedi dal Montenegro!

                                        Suo malgrado, era diventato per noi il simbolo del divieto, colui il quale annunciava il silenzio. E non si poteva che ubbidire. Noi comunque, eravamo legati da un amore vero e sincero, come sincero può essere soltanto un sentimento che sorge a quella età. Rosetta, Michele e Maria li ho ancora nel cuore, li sento vicini, allegri e spensierati come allora. V'era una casetta bassa, nascosta tra piccole querce, giù nella valle, ben distante da Nusco, in contrada "Gargone". Una casetta fatta di sole pietre, senza calce, senza finestre. Nunzio vi viveva con la sua famiglia. Andavo sovente a prendervi il latte fresco. A giugno le mucche ne facevano tanto; l'erba era alta, abbondante e nutritiva. Egli, nelle ore del pascolo, che durava per quasi tutto il giorno, se ne stava all'ombra di una quercia secolare sopra un'altura; da lassù riusciva a controllare tutto il podere.

                                        Un cappello a larghe falde, calato fin quasi sugli occhi. Rispondeva contro voglia alle mie domande. "Che si fa a Nusco? che si dice?" - mi chiedeva, tanto per farmi contento -. Ed io: "Dicono che tra non molto arriverà anche da te la luce elettrica". "Chissà quando, chissà quando... " borbottava.

                                        Per il resto passava ore ed ore, seduto su di un masso, tranquillo e silenzioso. A me pareva che in quella valle mancasse ogni nozione del tempo; il ritmo che scandiva gli avvenimenti era lento, irreale. Le mucche continuavano a mangiare l'erba, insanziabili. Nunzio le seguiva con sguardo attento. Erano lo scopo della sua vita.

                                                                                - Al calar del sole cominciava a mungere.

                                        - "Tieni, bevi" - mi porgeva una tazza di creta, colma di latte fresco. "L'ho detto a tua madre che il latte delle mie mucche va bevuto fresco; è sano, è nutritivo. Guarda che prati!"

                                        - Piace così anche a me" - confermavo.

                                        - "Adesso vai che si fa tardi, la strada da fare è lunga ". Sono questi piccoli scampoli di fatti avvenuti in un tempo non tanto remoto. Quadretti di vita semplici, senza pretese. Ma che hanno un senso solo per chi li ha vissuti.

                                        Sono stato, la scorsa domenica, in collina sopra il lago Ceresio. Luoghi belli, frequentati. Ho trascorso la giornata tra giardini in fiore, in mezzo al verde. Penso incautamente, tra me e me, ad un raffronto tra questi luoghi e quelli del mio paese natìo.

                                        Ahimé! Paragone improponibile. Ci sarebbe voluto un arbitro imparziale. Non si può dare un giudizio sereno con nell'animo un sentimento antico, un richiamo alla memoria che, a volte, ha il sapore della malinconia. I due ambienti, così diversi tra loro, un qualcosa in comune ce l'hanno, anzi ce l'avevano. Accanto ad un lavatoio oramai in disuso, un anziano signore del posto mi ha parlato delle lavandaie che vedeva, nei tempi andati, affluire in continuazione.

                                        E le lavandaie di Nusco? Non erano forse ancora più numerose? A gruppetti, la cesta dei panni poggiata sulla testa, si avviavano alle "vasche" della contrada "Leone". Mi par di risentire i loro canti a squarciagola; storie che parlavano di amori contrastanti, di passioni svanite, di ripensamenti, di promesse mai mantenute.

                                        Come mi piacerebbe riascoltarle.

Varese, giugno 1992

    Angelo Pepe

 

da IL NUOVO SUD Anno XIII n.2 (55) Marzo - Maggio 1993