La guerra è così

 

                                        A distanza di quindici anni Raffaele tornò a Nusco. A New York era riuscito ad ambientarsi quasi subito. "L'America è generosa, chi ha voglia di arricchirsi può farlo, basta la volontà e la costanza. C'è gente che è riuscita a costruire immense fortune, partendo dal niente!" - spiegò ai vecchi amici -.

                                        Era d'agosto, una domenica mattina. Salutò tutti, anche coloro i quali facevano fatica a riconoscerlo. Gli feci notare: "Ricordi quando venivi da Napoli a fare il turista a Nusco? Avevi sempre parole di elogio per questi luoghi? Ti piaceva l'aria fine, la calma; eri attratto dalla generosità e dalla modestia della gente". - "Sì che lo ricordo. Ed è per questo che oggi son qui con voi. Sono venuto da New York apposta. No, Nusco non lo dimentico... ".

*   *   *

                                        Ogni anno, agli inizi di luglio, lasciava Napoli per Nusco. Raggiungeva la nonna Albina, in via Dietro S. Maria Vetere. Ad attenderlo con ansia eravamo io, Armando, Salvatore, Michele e Giovanni. Un altro compagno di gioco si aggiungeva al nostro gruppo! Qualche giorno più tardi arrivava anche suo fratello Andrea; allora si poteva dire che la compagnia era al completo.

                                        La vecchia Albina ci raccomandava: "Giovanotti, siate bravi, niente giochi violenti. Attenti a Raffaele, è il più piccolo, il più indifeso di voi tutti—.

                                        A luglio il caldo si faceva sentire. Prima del levar del sole, approfittando della frescura, buona parte dei contadini era già all'opera nei campi. Il grano, quasi pronto per essere mietuto, ondeggiava alla brezza mattutina. E per le strisce erbose di terreno, che si affacciavano sulle valli, andavano pascolando di buona lena gli animali, finché la calura lo permetteva; poi, all'ombra dei fitti arboscelli di quercia, attendevano le ore del pomeriggio avanzato, quando riprendevano a brucare. Nei vicoli si sentivano dei colpi decisi: i falegnami, i muratori, i fabbri, tutti alacremente impegnati nel loro lavoro. L'estate a Nusco durava poco, era meglio guadagnar tempo. Nel lungo letargo invernale ci sarebbe stato il meritato riposo.

                                        Le persone più anziane se ne stavano sedute davanti all'uscio delle loro case, protette dal fresco dei vicoletti. Trascorrevano le giornate sonnecchiando, infastidite solo dalle fragorose rincorse dei fanciulli. In vicolo Dietro S. Maria Vetere, sul far della sera, le vecchiette si raggruppavano proprio davanti all'abitazione di Albina. Ne ricordo diverse: Cristina, mia nonna Maria, Rosa, Carmela, Michelina. Un colloquiare semplice, il loro. Domande brevi, appena sussurrate, e risposte altrettanto concise, magari solo un cenno. Una di loro, Cristina, molto saggia, non appena ci scorgeva nei dintorni, ci invitava a formare un cerchio intorno a lei. Al nostro invito, non si faceva pregare più di tanto; cominciava a ricostruire la sua storiella. L'episodio era sempre lo stesso, ma veritiero. «La vita è un lampo. Un soffio di vento. A voi pare interminabile, eppure vedrete, passerà in un baleno. Mi sembra ieri quando sposai Amato, pace all'anima sua... Dopo due anni, già un paio di figli. Poi la guerra, la prima guerra. Mancò quattro anni; fu dura tirare avanti, ce la feci lo stesso. Al ritorno non sembrava più lui, era cambiato completamente. La notte si alzava sul letto, poi si rannicchiava sotto le coperte e gridava: "aiuto, aiuto!-. Con il tempo gli passò, cominciò a parlarmi della sua esperienza. - "È destino. Venir fuori da quell'inferno è quasi impossibile. Ci vuole anche fortuna. Se non avessi avuto gli occhi bene aperti... Stavano per fregarmi, gli Austriaci; ne feci fuori due, erano a non meno di una decina di metri da me. Nella battaglia, poi, chissà quanti... ". Amato tornò, la sorte lo favorì. Adesso sono di nuovo sola. Però ho vissuto abbastanza...»! E noi in coro: "Altri cento anni, Cristina, cento anni! La compagnia non ti manca, la salute nemmeno!-.

                                        Raffaele restava ogni volta turbato. Il giorno dopo, immancabilmente, mi chiedeva spiegazioni: "Angelo, è vero che non è giusto ammazzare, come fece Amato?". "Certo che non è giusto, ma la guerra è così" - chiarivo meglio -. Non riusciva a rendersi conto di come un uomo potesse sopprimere altri uomini, così, in un attimo, senza dover dar conto a nessuno.

                                        Con la ripresa del gioco tutto veniva accantonato. Tornava la gioia. Passavamo il nostro tempo, spesso e volentieri, nelle strettoie di campagna sotto Porta Mulino o sui prati del vecchio Castello.

                                        Noi "paesani" non andavamo tanto per il sottile, le nostre maniere erano un po' "pesanti". Un giorno distruggemmo un formicaio e Raffaele disapprovò: "Poveri animaletti, hanno fatto tanto per costruirsi la casetta!" Lui la prudenza, noi la foga, la vitalità. Cercando di apparire sempre più audaci, volevamo dimostrare la differenza di coraggio e di capacità tra un cittadino e i "montagnari", come egli amava definirci. Le scalate ai muriccioli cadenti, le arrampicate sugli alberi, i tuffi nelle acque dei valloni, tutte prove pratiche di forza e abilità. A lui non restava che un ruolo marginale, da spettatore. Nonostante tutto eravamo inseparabili. La mattina presto bussava alla porta di mia nonna: "Maria sono io, Raffaele, chiama Angelo che l'aspetto—. E lei: "Alzati, non dormire. Un ragazzino di Napoli che è sempre il primo di tutti, la mattina. Vieni, Raffaele, vieni avanti. Porta pazienza con questi maleducati!".

                                        Alla fine di settembre, quando Raffaele partiva, mi restava un vuoto dentro. Un anno d'attesa era lungo. Non avevo il coraggio di salutarlo. Me ne andavo nella stradina Dietro le Mura, e da lì vedevo la corriera allontanarsi. La seguivo fino a quando riuscivo a vederla.

*   *   *

                                        Il tempo passò in fretta, quella domenica mattina. Raffaele fu molto disponibile, ci mise al corrente delle sue condizioni. Spiegò la difficoltà dei primi tempi, a New York, il primo lavoro, la lingua. Fino all'inserimento completo. Ormai si sentiva al sicuro, un uomo affermato.

                                        Noi, per parte nostra, gli facemmo presente che anche in Italia qualcosa era cambiato; che molti di noi erano emigrati in Svizzera, in Germania, in Francia.

                                        Un attimo prima di lasciarci, ebbe come un sussulto: "Scusate, dimenticavo. Io sono ormai cittadino americano, da diversi anni. Ho prestato anche il servizio militare sotto la bandiera americana, ho fatto la guerra in Vietnam!".

                                        - "E come è andata? È stata dura?"

                                        Indugiò un attimo, poi rispose: «Una brutta avventura. Nove mesi passati nella boscaglia, con il terrore di essere ucciso dai vietcong, che sbucavano da ogni parte. In una occasione fui costretto a sterminare una decina di persone. Erano nascosti in una capanna; sentii delle voci, poi un urlo. Preso dalla paura, cominciai a sparare all'impazzata. Mi fermai solo quando un sergente mi gridò: "Basta, basta". È la guerra. E così, non c'è niente da fare!».

                                        Andò via. Non un accenno alla storiella della vecchia Cristina.

Varese, novembre 1992

 Angelo Pepe

da IL NUOVO SUD Anno XXII n.6 Novembre/Dicembre 1992    Anno XIII n.1 Gennaio/Febbreio 1993 (53-54)