La storia di Masto Donato

 


                    Quando bambino e poi ragazzetto, facevo ritorno a casa con gli abitucci in precarie condizioni, listati di verde per le scivolate sull’erba del Calvario, lacerati dalle aste acuminate dei rovi di more rosseggianti, lordati dall’abbondante fango che la pioggia lasciava per le vie del paese, la povera mamma mi apostrofava con appellativi che si riferivano a tipi del passato rimasti celebri per il loro abituale abbigliamento. Le stesse espressioni mi ripeteva approssimativamente la nostra vicina Rosina Ninni. Mi risuonano ancora all’orecchio le parole accorate di mamma che mi diceva: “come ti sei combinato, figlio mio! Mi pari Sciavone”. Quando all’accoramento si accompagnava un po’ di rabbia, la frase mutava soltanto nel termine di paragone e suonava: “Mi pari Cicco Ciancia”. I due personaggi, divenuti proverbiali nella parlata nuscana di tanti anni fa, più di una volta mi hanno fatto ripetere alla maniera di don Abbondio: “Ma chi erano costoro?”. Io me li raffiguravo soltanto come dei giramondo scanzonati, coperti di panni logori e sbrendolati, con tanto di zazzera al collo e barbone bianco arruffante.
                    Di stampo ben diverso doveva essere Donato, di cui si narrava la vicenda che sconfinava addirittura nella leggenda, tutta condensata in una frase divenuta proverbiale.
                    Vi racconto il fatto come l’ho sentito molti lustri addietro, e non garantisco che risulterà letteralmente identico a quello del mio vecchio narratore.
                    Dunque Donato era un artigiano che godeva buona fama nel suo mestiere; coi proventi del lavoro suo e la rendita di un fondo dato a mezzadria aveva di che vivere e provvedere a una buona vecchiaia; dal punto di vista economico s’intende. Non aveva voluto saperne di matrimonio e in età avanzata aveva resistito ai corteggiamenti di varie zitelle, che intendevano gustare l’onore del maritaggio e soprattutto amministrare un discreto patrimonio. Con Sciavone e Cicco Ciancia Donato doveva avere in comune soltanto le radici affondate nel mistero di un lontano passato.
                    Intanto i giorni, i mesi, gli anni passavano, uguali e monotoni sul ritmo delle stagioni; e il nostro si ritrovò non più giovane e con più d’una smagliatura nel groviglio intricatissimo dell’apparato cerebrale. Si venne così a una svolta nella vita di masto Donato: a determinarla fu un febbrone che lo tenne in dormiveglia per tutta la notte di Giovedì Santo. Era quella la prima volta che non aveva fatto il giro dei Sepolcri e non aveva ascoltato la lunga predica della Passione nella cattedrale di Sant’Amato. Dormì e sognò o vide e ascoltò dal vero?! Il pover’uomo stesso in seguito non sapeva propendere per una delle due cose. Fatto sta che quella notte vide e sentì la morte che gli parlava: “Donato, preparati; tra un mese in punto verrò a prenderti”. Il giorno appresso al compare vicino di casa, andato per riempire la quartara alla fontana, Donato assicurava con una mano sul petto e un’espressione valida più di un giuramento: “Coscienza dell’anima, l’ho vista, l’ho sentita”. La confidenza, fatta a più amici, della stessa stoffa di quelli manzoniani, diffuse la notizia per tutte le contrade: Da Fiorentino al Mito, da Tavernarsa a Silitroppa. Là per là Donato non si spaventò più di tanto; aveva più di un mese di tempo per farlo.
                    Ma il nostro volle impiegare il suo tempo in ben altro modo. Volle superare in fama di sciampagnoneria tutti i Nuscani più celebri. Volle darsi alla pazza gioia e concepire il disegno di scialacquare l’intero patrimonio in pochi giorni di feste e festini. Niente e nessuno poté fermarlo; tutto impegnò, vendette tutto.
                    L’ultimo triduo dei Saturnali di masto Donato fu festa cittadina: la casa, ricolma d’ogni ben di Dio, rimase aperta a tutti. Un’orchestrina di chitarre e mandolini allietò la serata, mentre le consumazioni venivano abbondantemente innaffiate di vini e liquori. L’ultimo giorno, dei beni di masto Donato non restava più nulla, come era stato appunto previsto e stabilito.
                    A mezzanotte in punto Donato era pronto per la visita della dama bianca, abbastanza lucido nonostante le abbondanti libagioni fatte con certe spugne di concittadini festaioli. E non avvertiva nessun malessere: né una trafittura al costato, né una debolezza agli arti, né un peso allo stomaco. Si dispose coraggiosamente all’incontro, come intrepidamente aveva dato fondo a tutte le sue sostanze. Quando l’orologio suonò l’ultima ora e la fine del giorno, l’uomo sgranò gli occhi nel buio della stanza, tese gli orecchi per captare anche un lieve fruscio. Nulla. Attese, attese finchè cadde in un sonno profondo, che doveva avere un risveglio doloroso e amaro come il fiele.
                    Donato rimase in vita ancora per molti anni, ma si ridusse a girare per le campagne e i vicoli del paese ripetendo meccanicamente, con la lucidità che gli restava, la frase con cui è entrato nel mondo della leggenda: “Fate bene a masto Donato, chè la morte l’ha ingannato”.

                                          Prof. Michele Della Vecchia